fine w/e
Uscire dal w/e, è sempre come risvegliarsi in un posto diverso da quello in cui ti eri addormentato.
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Uscire dal w/e, è sempre come risvegliarsi in un posto diverso da quello in cui ti eri addormentato.
Il piatto in oggetto è un tacchino (turkey) ripieno di anatra (duck) a sua volta ripiena di pollo (chicken) a sua volta ripieno di pan grattato salse e spezie. E’ tipico della cucina Cajun, o creola, ovvero quella che si consuma prevalentemente in Luisiana, un mix di cucina francese e africana.
Le pressioni nella vita ci fanno diventare ripieni di ripieni ed alla fine difficilmente riusciamo a ritrovarci, ad addentare la pastella. Dobbiamo invece provare ad assaporare l’ultimo ripieno.
Con la bocca bofonchiante voglio consolarmi dell’ultimo premio, gustando tra me e me, la porzione di vita dipinta ad acquaforte e non degradata a paesaggio pittoresco autunnale inzuppato sul foglio con tenue acquerello. Ma la follia è una sottile e delicata membrana che separa la consapevolezza ordinaria dalla iperconsapevolezza. E’ delicatissima, Dio però non gioca ai dadi e ci consente quindi di fermarci, se lo vogliamo, un secondo prima dell’ultimo boccone dell’ultimo ripieno, quello oltre il quale non c’è più nulla. Quello che se morso, ci lascia a bocca ormai vuota a contemplare quello che è assente. L’estrema consapevolezza, quella che ci rende tutto più chiaro solo per un istante prima che poi diventi tutto nebuloso e fioco per sempre. Vi siete mai chiesti perchè i folli abbiano la bocca sempre aperta, non è stupore, è il vuoto lasciato dall’ultimo boccone.
…e voi preferireste essere sbranati da una tigre o da un coccodrillo? Messi alle strette che scegliereste?
Smettetela di fare i piccoli borghesi e spendete. Comprate cose inutili e costose. Fatelo. A che vi servono i soldi? Affamatevi, non scherzo. Circondatevi di oggetti futili. Cambiate. Siete noiosi. Che spese folli fate? Se la risposta è nessuna, c’è qualcosa che non va.
Riusciamo sempre ad assuefarci alla mediocrità. Diamo per scontato che i giorni debbano necessariamente seguirsi come stanze “enfilade”, senza però la visione sfarzosa dell’architettura barocca. Superiamo le ore passandoci in mezzo, una teoria ininterrotta di domino. Ed intanto il tempo trascorre. Spendiamo le nostre energie in progetti in cui non crediamo e andiamo in apnea per svariati motivi contando i minuti che ci distanziano dal riprendere il respiro. Viviamo giorni con gli occhi serrati, come i bambini durante i temporali e li riapriamo nei week end. Non apparteniamo a nessuna ideologia, rischiamo di non appartenere più a nessun tempo. Io patisco il peso della scarsa cultura di chi mi dirige, del “capufficio” se ancora esistessero contratti del genere…
Quasi sempre governa – dal parlamento all’ultimo degli impieghi – chi in silenzio obbedisce e risolve velocemente le richieste, in maniera rapida, asettica, proattiva. Prevenire rapidamente i problemi è la via preferibile in tutto eppure gran parte della nostra civiltà si è costituita speculando sulle problematiche, inventandone anche di nuove per un puro esercizio filosofico. Era la palestra dell’ingegno. Si allenava il pensiero nella risoluzione dei problemi, si discuteva e ci si osservava nel farlo. Konrad Lorentz diceva che “la vita cerca problemi e l’offerta di problemi è significativa per il successo; una mancanza di problemi può provocare una stagnazione”, ma anche Abelardo “il porsi costantemente dei problemi sta alla base della saggezza. Poiché attraverso il dubbio siamo portati all’indagine, e attraverso l’indagine arriviamo alla verità.” Ma anche l’antico motto che diceva che un problema è solo un’opportunità che ti concede la vita di fare meglio.
I gretti detentori del potere non desiderano i problemi, li temono perché vedono nel problema l’errore e nell’errore il fallimento. Ma io ritengo che il fallimento sia già vivere una vita che annulla le potenzialità dell’intelletto, che crea modelli da seguire per situazioni standard, che limita la comunicazione a moduli di “domande e risposte”. E’ la mentalità della piccola borghesia. Puoi amministrare un capitale, guidare una Aston Martin, ma la puzza della piccola borghesia non te la lavi via. L’esser cauti, o peggio l’esser fintamente intrepidi, il guardare attentamente, il giustificare necessariamente un documento, come se l’irregolarità fosse un segno di disordine diabolico sono mali letali per il progresso della razza. L’essere piccoli borghesi è ben peggio che essere poveri. Il povero s’industria, il povero se delinque lo fa fisicamente, in prima persona, sentendo sotto le falangi immediatamente la carta dei soldi. Il povero non evade, semplicemente non dichiara, e soprattutto truffa senza il monitor davanti agli occhi. Il povero, ruba, zappa, pialla, salda, trasporta, vende piccoli oggetti al dettaglio, lava, stira, beve e picchia. Il piccolo borghese non fa quasi nulla di tutto ciò e se lo fa lo giustifica come hobby, come lavoretto, come disturbo psicologico cercando comunque di prenderne le distanze. Il piccolo borghese fa sempre la cosa più intelligente e sempre la spesa mirata, provando un brivido quando compra qualcosa di non previsto fosse anche un formaggio non in offerta. Io provo un brivido di noia quando mi rendo conto di aver comprato solo cose utili.
Dalla piccola borghesia è difficilissimo affrancarsi. E’ un’operazione disperata, bisogna accumulare diottrie sui libri, ammirare arte sconosciuta e dire no di tanto in tanto a chi rappresenta l’autorità. Il piccolo borghese deve arrivare un giorno a rendersi conto di quanto la sua esistenza sia mediocre, sbagliata e priva di qualsivoglia valore. Questo è il primo passo. Non sono così ingenuo da pensare che sia possibile un mondo di persone che sterzano all’ultimo, con stridore di gomme e sobbalzi in abitacolo, ma guardatevi state davvero iniziando a camminare tutti con climatizzatore acceso, cambio automatico e controllo della velocità.
Mi diceva sempre la mia professoressa del ginnasio che alcune domande sono molto più difficili delle possibili risposte. Per me è sempre stata una gran cazzata. Le risposte sono sempre più difficili delle domande; a domandare non ci perdi quasi mai nulla, il peggio può essere una risposta sgradita. A rispondere invece ci vogliono le palle. Anche perché è la risposta che da il senso alla domanda più che il contrario. Uno pensa: e se do una risposta sbagliata? Se deludo l’interlocutore? Se lo destabilizzo? Se mi destabilizzo? Se la risposta è esatta, poi sono pronto per una nuova domanda? Se chi mi ha fatto la domanda poi non sopporta la risposta? Se quella non era proprio una domanda, ma una constatazione? In questo caso si rischia addirittura di passare per stupidi. Comunque obiettivi futuri, dare più risposte e fare meno domande.
La S.V. è invitata all’hotel X di X, è stato selezionato per l’annuale seminario che si terrà sul tema della X. Non era un invito a soluzione matematica ho semplicemente omesso le cose non importanti.
Questo accadeva esattamente un anno fa. Partii qualche giorno dopo con un mio buon amico, anch’egli invitato. Faceva freddino, caricammo l’automobile e preparai un cd per il viaggio, ero felice davvero. Trascorsi tre giorni equamente suddivisi tra la noia seminaresca e la follia notturna, in un ambiente cameratesco che non vivevo dal viaggio di licenza liceale. Mangiammo bene davvero in quei giorni, bevemmo anche meglio, alla sera era d’obbligo il vestito ed io l’indossavo con piacere. Ho conosciuto in quel frangente persone prevalentemente squallide, ma il mio cellulare non taceva per un istante, ed io mi sentivo il centro prevalente di un piccolo universo.
La notte sgattaiolavo fuori la camera e con altri si cercava posti dove trascorrere il tempo fino all’alba. Una sera tornai ubriaco ma feci finta di nulla per poter guidare. Sapevo che quei giorni illuminati da una luce obliqua, fredda, avevano comunque qualcosa di accogliente. Sapevo che quei pomeriggi presto inghiottiti dal buio erano in qualche modo speciali.
Non vissi amori se questo è quello che può interessare, mi accorsi invece della bellezza della banalità, del cliché. Non volevo più tornare, amavo la malattia nella quale stavo vivendo. La malattia del sapore dolciastro della squallida fuga.
A casa mi aspettava un’occupazione per la quale non mostravo inclinazioni, affinità, una relazione che traballava tragicamente ed un futuro di cui non volevo occuparmi.
Oggi pomeriggio non anelo fughe, ma il mio telefono non squilla e questa forzata convalescenza -come sto iniziando a chiamarla- mi sta lentamente portando al distillato più puro che il nulla produce: la noia.
A breve incomincierò una nuova esperienza professionale, che sarà quella che mi terrà occupato per il resto della mia vita, ne sono molto felice, come sono felice di chi mi è accanto…oops…il cellulare ha squillato, dovrei forse cancellare tutto quello che ho scritto sino ad ora? No, perchè lì vi ho riposto i cattivi pensieri di un pomeriggio ed è bene che rimangano ichiodati alla pagina e poi Ils… n’emploient les paroles que pour déguiser leurs pensées.
la noia si pesa in grammi, la lontananza si misura in centimetri.