La notte

scritto da sanfedista il 1 dicembre 2015,16:45
la fiocina a punta, quel colpo di biliardo,
lo schiocco, lo stendardo, quel vento a primo giorno.
La scala al paradiso? io scivolo all’inferno
rincorro sul tuo viso le lacrime dolcissime
son lame all’imbrunire le righe del quaderno.
mi  ascolti nel rumore, ti vedo nel silenzio
e afferro con le mente il sonno tra le dita
scompare velocissimo.
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gli altri

scritto da sanfedista il 20 aprile 2015,16:07
e a spalancar le braccia mi son slogato;
un fiore rosso all’asola del bavero e nemmeno più un’ ape;
l’attenzione per quello che facciamo è un telefono che squilla a vuoto.
un rumore lontano, chiuso nella stanza accanto, che quando lo sollevi è libero di nuovo,
e addosso solo il fiatone della corsa, in ritardo e il disappunto per un inutile disturbo.
non ammettiamo che il ritardo era nostro e che magari dall’altro lato un “mi manchi”, un “attento”, un “son qui”, un “ti amo”.
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BUIO

scritto da sanfedista il 17 aprile 2015,16:19
nel centro esatto della notte. nel germoglio più rigoglioso, l’ultimo secondo di buio che esploda in alba. nell’ora in cui più s’affatica il lampion a render fioco il nulla. e il trascorrer del tempo è giacca che a una mano nera s’incaglia e strappa. ed anche la polvere sul cubetto di pietra del manto s’appesantisce di buio; minuscola, quasi all’uomo inapparente è buia anch’essa e adagiandosi nello scuro s’amplia a dismisura divenendo essa indiscindibile dall’immenso. unendosi all’oscuro diventa il tutto presente, che avvince colla forza anche la montagna, un grano di polvere di strada al buio.
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Una sera, primavera, pasta fresca a champange

scritto da sanfedista il 9 aprile 2015,17:12
I primi pomeriggi di primavera. I pomeriggi con il sole intricato tra le poche nuove foglie degli alberi. Indossavo camicie bianche e un sorriso incerto. Incerto perchè mutava per piccole inclinazioni di pochi gradi, da un’ allegria partecipata, ad un distacco annoiato fino a schernire un po’ di timidezza. Sono un timido, della peggior specie, di quella che sono diventati timidi non per una particolare predisposizone personale ma senza dubbio per educazione familiare. Mio padre è sempre stato davvero brillante, un assoluto vincente. I francesi direbbero flamboyant. Mi spingeva come ogni padre ad essere come lui. Io ritenevo fosse molto meglio di me. L’ho sempre visto come inarrivabile. Lui voleva fossi brillante come lui e quindi odiandolo, come ogni figlio di padre con carattere, facevo esattamente l’opposto: “Ti presento mio figlio, ha la tua età…”. Un “ciao” davvero sofferto fuggiva via da una bocca poco meno che serrata. Per il lavoro che fa, ha sempre ben gestito il convivio. Molto conosciuto e molto anche corteggiato. Ed io quando ero con lui mi sentivo sempre al centro di un fascio di un riflettore. Tutti mi guardavano come se di lì a poco avrei brillantemente imbastito una conversazione. Avevano la risata in gola. La preparavano incondizionatamente. Sapevano che il figlio di XXXX non avrebbe deluso. Ero più bello di lui. Avrei solo dovuto sorridere e dire qualsiasi sciocchezza anche solo un po’ arguta ed avrei egualmente soddisfatto i crediti concessi dagli amici di papà ed il suo desiderio di vedere se proseguire in me. Mi rifugiavo invece nelle mie scarpe. Pensavo in quei secondi che in realtà ero il mio piede, che migrando velocemente da cervello al piede avrei trovato sollievo. Il sorriso mi riusciva sempre ma l’arguzia così lontano dagli emisferi cerebrali davvero no e finivo quindi per mugugnare qualcosa o peggio, ridere io alle battute di qualcun’altro. Un vero e proprio smacco per un brillante.
 
A 20 anni, mio padre non viveva più con me da sei. Mi ero quindi pacificato con la sua parte in me e stavo anche cominciando il percorso che mi avrebbe ricongiunto con la sua parte in lui. Come tutti i giocattoli nuovi non mi veniva mai a noia. Maneggiavo la mia brillantezza abbastanza bene e proprio come lui cominciavo ad avere un nutrito gruppo di appassionati. Davo finalmente sostanza ai pregiudizzi. Si ero un figlio d’arte. I pomeriggi di primavera erano per me questo. Lunghi, lunghissimi spazi di piacere. Il giocattolo non solo era nuovo ma lo padroneggiavo. Ed ecco che la formula magica era pronta. Avevo un potere.  In primavera Napoli è splendida. La buona borghesia cittadina detesta l’inverno. La primavera quindi arriva sempre come una liberazione, violenta. Si tende a pensare sia quasi estate. Feste, feste, cene e ritrovi. E la notte, trascorsa la sera, si decideva quasi con ansia vitale su come impegnare la notte successiva. Sempre più lunghe, avide e deliziose. Anni di terrazzi sul mare o sulle spiagge di ville a Posillipo. E la notte fonda parlavi con una tua vecchia amica, entrambi giustamente ubriachi su quanto fosse eccellente l’arte. Solo argomenti sublimi. Solo questioni elevate solo sguardi profondi di compiacimento benestante. Granelli di sabbia tra le dita, velocità elevate in città e promesse eterne di follia. Ebbi per un breve periodo una donna splendida. La invitai a cena e le presi pasta fresca. Cucinai per lei e aprii champagne. Prima di fare l’amore parlammo fittamente per due ore, intervallando le parole a silenzi galvanici. E’ stata una delle sere più totali della mia vita. E’ successo davvero. Eppure ora a ricordarlo sembra un racconto. Si vivevano momenti irreali, impossibili, senza accorgersene, con la leggerezza della profondissima insipienza: la coppa sarebbe sempre stata piena, la notte sempre fonda, la camicia sempre bianca, la primavera sempre alle porte.  

quando piansi in volo

scritto da sanfedista il 26 marzo 2015,16:21
Una volta ero in volo. Stavo andando in nz da solo, erano circa 33 ore di viaggio. roma dubai, dubai singapore, singaporte melbourne, melbourne auckland. Volavo da circa 16 ore. Avevo visto tutti i film disponibili, letto tutti i libri disponibili e bevuto quasi tutto il gin disponibile a bordo.
Gin Tonic. Un deliziosa pozione magica per me che non chiudo occhio passati i 15.000 piedi. Volavo sull’aeroporto di singapore. Notte fonda. Il comandante annuncia l’atterraggio. Avevo 22 anni o qualcosa di meno. “Cabin crew ready to landing“. Rimesso in posizione eretta lo schienale, chiuso il vassoio e allacciata la cintura, incomincio i miei riti scaramantici, quelli che mi accompaganano sempre al decollo e all’atterraggio. “Cazzo, alzati da bravo, vai, vai, vai, vai, dai da bravo alzati”. Lo ripeto tutte le volte che l’aereo rulla sulla pista in fase di decollo, quando sento i motori che urlano e quando si arriva al punto di decisione, ovvero la velocità a terra oltre la quale la procedura di decollo non può essere interrotta, o abortita come dicono i piloti, e l’aereo deve per forza decollare. In atterraggio guardo invece compulsivamente il suolo ed entro in un insolito mutismo.
L’aereo non atterrava. Anzi riprendevamo quota e giravamo sull’aeroporto come api di plastica sulla culla di un neonato. Non era nulla di davvero preoccupante. Ma non so perchè dopo 20 minuti che non si atterrava scoppiai a piangere. Un pianto di bambino. Da essere indifeso. Ero a 15 mila piedi sopra Singapore da solo e stavo andando agli antipodi da solo. Mi sono sentito per la prima volta nella mia vita indifeso in qualche modo. Piansi prima sommessamente, poi più forte. Attirai gli sguardi dei passeggeri vicini. Nessuno intervenne in alcuna maniera. Stress, paura e stanchezza. Piansi finchè non atterrammo. Il viaggio era appena incominciato, sarebbe stato il mio rito di passaggio verso l’età adulta. C’è sempre un viaggio che ti cambia la vita, questo era il mio.
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la corda

scritto da sanfedista il 19 marzo 2015,16:36
dove fuggi via? dove di fretta scompari nel bosco? Da dove mi guarderai voltandoti?
l’aria di che luogo si farà vento sulla faccia per il tuo correre. Quanto allungherai la corda, quanto la allungherai prima di renderti conto che non esiste, che arrivata ai confini del giorno nulla ti tratterrà la caviglia?

senza metafore

scritto da sanfedista il ,15:50
eppure imparai a scrivere senza metafore. imparai a scrivere e a descrivere senza più paragonare i pensieri agli stagni salati, le lacrime a gocciole di catini che scorrono via solo quando il recipiente è colmo, o te a un grammo di elemento chimico appena scovato. imparai ad osservarti senza paragonarti a nulla, mi liberai dal tutto l’inutile che distoglieva il pensiero dall’essenza di te riassunta in te. La mente non s’allontanava dal tuo concetto in cerca di parole già dette o panorami visti, fisso su di te, come il mio occhio fisso su di te. Un nuovo assoluto, un paragone senza precedenti.  

Una pagina bianca

scritto da sanfedista il 23 febbraio 2015,16:04
su tutte le cose visibili e invisibili, su tutto quello che ancora dobbiamo fare, su quello che abbiamo fatto e su quello che stiamo vivendo. Un tempo io credo di essere stato un altro. Io non penso di essere alla mia prima esperienza di vita. Non voglio definirla reincarnazione, non saprei come chiamarla, ma molte cose che vivo mi sembrano troppo banali per essere successe solo la prima volta. molte cose, la maggior parte invero, non mi stupiscono nè mi rendono particolarmente allegro. ho sempre creduto si trattasse di indifferenza al vivere, un cinismo distaccato che ti fa apparire tutto, anche le più grandi novità, assolutamente svuotate da ogni forma di emozione. mi odiavo però, quando pensavo questa cosa mi odiavo, mi chiedevo perchè io tra tanti fossi stato infettato con il seme dell’indifferenza, del sublime distacco ma anche della assoluta svogliatezza nel cimentarsi nelle opere a causa di una sensazione costante di essere già arrivato. oggi incostante anche nell’odiarmi ho trovato una soluzione migliore. io sono alla 40 esima vita. ho già fatto un bel percorso di strada, ho già vissuto accadimenti, ere e grandi personaggi quindi oggi un nuovo amore oppure una tragedia globale non mi fanno in alcun mondo singultare il cuore, nè nel bene nè nel male.
 
Sono una barca nella corrente. Non una zattera nè un tronco, ma uno splendido bialbero con la carena bianca e il tek lucidissimo. Con i bronzi perfettamente lucidi e con un intero equipaggio in una immacolata uniforma bianca e assolutamente pronto ad ogni evenienza. Ma comunque in balia della corrente. Dettaglio un po’ perchè non voglio si pensi che sono in balia della corrente per un qualche stato di necessità o inadeguatezza. Non sono incapace di oppormi ai flussi e tracciare una rotta, non mi mancano nemmeno i mezzi. Io sono nella corrente per scelta inconsapevole. Mi ci sono trovato.
 
L’immagine di me ammetto non è delle migliori. In una società in cui si rimarca costantemente l’idea di scelta, di decisione, di consapevolezza, noi indecisi inconsapevoli ne usciamo abbastanza devastati. Non ci scelgono mai per vendere i profumi “Gator il profumo per l’uomo indeciso”; “Tribol l’essenza per il maschio inconsapevole”. Eppure noi indecisi per scelta, noi volenterosi disillusi siamo credo la spina dorsale della società, i questori dell’equilibrio. Io nella vita ho avuto tutto. No forse tutto no, ma tanto si sicuramente. A 18 anni ho avuto una automobile che volevo, non un’automobile. Un’automobile che volevo. Una macchina che avevo valutato e scelto. A 21 dopo soli 3 anni avevo una mini cooper nuova 24 mila euro senza nemmeno fare in tempo a dire “…vorr…”. Che puff l’avevo sotto il sedere, e non era venduta da sola, ma aveva in dotazione sempre una splendida ragazza. Una volta stavo guidando con la mia macchina nuova, la mini rossa con il tetto bianco, verso pozzuoli. Avevo accanto una splendida ragazza. Aveva un vestitino bianco di cotone che la fasciava totalmente, aveva capelli neri mossi, occhi scuri, e carnagione scura, una borsetta rossa e un caldo odore di miele e abbronzatura, quell’odore salmastro e caldo. Guidavo con un po’ di musica, era il secondo appuntamento, quando un po’ di vento entrò dal finestrino. Lei ebbe un brivido e le si inturgidirono i capezzoli, visibilissimi da quel vestito. La guardai, li guardai lei mi guardò, e scoppiò a ridere, mi eccitai e se ne accorse, e senza interrompere in alcun modo il silenzio, fatto di sguardi e sorrisi, si chinò gentilmente su di me, mi slacciò i pantaloni e mi fece un pompino mentre guidavo. Fu una delle 7 volte in vita mia che sono venuto con un pompino.
 
Ecco come sono stati i miei 20 anni. Una lunghissima strada, percorsa al tramonto estivo, tra il Vomero e Pozzuoli, verso un bar sul mare, guidando una mini mentre una splendida ragazza mi faceva un pompino. Ovviamente con musica in sottofondo.
 
A 20 anni mi sembrava davvero interessante che la vita avesse scelto per me. In fondo non aveva sbagliato un colpo. Ero nato nel lato giusto del mondo e nell’emisfero giusto. All’interno di questa élite facevo parte di una ulteriore élite. Papà direttore generale, mamma dolce e dedita. Nobile di famiglia, case in montagna (una sugli appennini, in Abruzzo e l’altra sulle alpi in Sud Tirolo), casa di proprietà con con camera vista golfo di Napoli, cameriere, baby sitter, scuola privata, università con feste annesse e viaggi nei 5 continenti (in tutti e 5). Insomma io era quel fottuto 0,075% del mondo, del genere umano, della specie, che rientrava nella definizione di “ricco”. Cazzo vi rendete conto? Un ottimo giro iniziale di roulette. Io signori la mia lotteria l’ho già vinta. C’è gente che gioca per una vita il lotto, guardando con trepidazione i numeri della estrazione e sognando di avere grazie alla vincita anche solo un quarto di quello che io già possedevo il 24 aprile del 1982 venendo al mondo alle 6 precise di mattina. La vita aveva scelto bene per me, e Dio, non avrei mai voluto smettesse di scegliere per me.
 
Ero felice? Beh sissignore lo ero! O forse no. Per la verità avevo conosciuto l’infelicità abbastanza presto nella mia vita. Forse appena sviluppata la ragione. Mi concentravo più sulle cose brutte, su quelle che andavano storte piuttosto che su quelle belle. Una macchinina rotta mi faceva pensare di più di una macchinina appena regalata, nuova. Al liceo, una scuola privata di snob dove quanto valevi, veniva interpretato dai compagni in maniera letterale e dove non ci si chiamava compagni ma “amici di classe”, una classe agiata, sviluppai uno smodato amore per lo scrivere. Ho sempre scritto, sempre da che ne abbia memoria, ma al liceo scrivevo di più. Scrivevo perché avevo bisogno di ricrearmi uno spazio per essere io senza me. Io senza me significava io nudo, io senza la variabile fortuna, io che decidevo, l’esito della pagina bianca e chi essere nei ricordi e nei progetti….

l’angelo sterminatore

scritto da sanfedista il 30 gennaio 2015,12:13

La scrivania incomincio a vibrare, così come i vetri e le tazze. La vibrazione si fece sempre più incessante, totale. Con la vibrazione si cominciarono ad aprire delle crepe nei muri che confluivano tutti in un unico punto del soffitto. Che diventava una sorta di stella marina. Che decorava in questo modo il soffitto bianco, dal quale cominciarono a cadere calcinacci, prima sotto forma di piccoli frammenti poi sempre più grandi. Fino a squarciarsi una vera e propria falla. Un buco sul soffitto, capace di far vedere distintamente il soffitto del piano ancora superiore. Io riconobbi subito il rassicurante odore di zolfo, unito al fumo: era senza alcun dubbio lui. L’Angelo dello Sterminio, l’angelo dello sterminio che era venuto a giudicare tutti noi dell’ufficio.

Tutti noi che sedevamo in queste misere scrivanie. Poco più che tavole da mensa Caritas, con dei vecchi monitor, alimentati da pc ancora più vetusti. L’angelo in genere sottoponeva i tutti a specifiche domande per valutare la preparazion di ognuno, per comprendere in che modo la cultura era permeata nelle menti dei giudicati. Una valutazione positiva, almeno basica, avrebbe consentito al soggetto di avere salva la vita. In caso negativo invece si sarebbero aperti per i malcapitato, le porte dell’inferno. Io ero sereno. Sprofondavo nella scomodissima poltroncina in finta pelle verdolina. Finalmente  il tempo trascorso sui libri, i pomeriggi e le notti trascorsi ad annusare le pagine dei volumi di filosofia, di storia, di arte classica e moderna, in cui i miei occhi luccicavano dalla stanchezza e dalla gioia, sarebbero stati ricompensati. La mia cultura faticosissimamente sottratta all’oblio, all’ignoranza diffusa, alla mediocrità fatta di volumi in dispense, programmi tv in cui la cultura era premetabolizzata e spettacolarizzata, sarebbe stata riconosciuta. La cosa più bella, il mio premio, però sarebbe stata veder polverizzati gli incliti. Mi sarei goduto questo favoloso spettacolo. L’angelo sterminatore era qui ed era venuto a giudicare le nostre culture. La più bella lotteria del mondo. L’angelo sterminatore non perse tempo e nemmeno voce, al sol guardare i miei colleghi s’accorse della loro infima estrazione culturale. Le loro faccie abbrutite dalla ignoranza, le loro mani anchilosate dal non sfogliar mai nulla, parlavano per loro. L’angelo allora mi guardò complice e l’istante dopo al posto degli altri c’era solo un mucchio di cenere. Un maestoso mucchio di cenere. Non fui soddisfatto per la verità. Mi sarei aspettato maggiore sofferenza, maggiore strazio. Ed invece tutto risolto in un semplice puff. Uno ZOT ben assestato. E tutto era finito. L’angelo allora si rivolse e me e mi propose di aiutarlo nella sua opera, mi prese per mano e volammo via insieme, parlando delle monadi, della guerra contro mitridate e di mario e silla. parlammo del cinema di autore degli anni 40. della pittura del luca giordano ma anche di pollok (ad entrambi non piaceva). Volavamo sul mondo, e giudicavamo tutti, e finalmente la mia cultura era riconosciuta e sopratutto rispettata. Non era più “intellettuale non significa niente” oppure “io capisco che sei intellettuale ma non sono gli intellettuali a portare avanti il mondo”, a queste risposte seguivano colonne di fumo e tutto fu cenere.

ed i passi che ho perso

scritto da sanfedista il 27 novembre 2014,17:14
camminando sulla via verso di te
mi concentravo sul suono del passo successivo
lo immaginavo come se fosse diverso dagli altri.
Un forte rimbombo in antro
una gocciola su foglia di papiro
il rumore di un pennello su canapa di tela
il tacco rompe il cristallo e cammino sui vetri
uno schianto
un panno di cotone strappato
una pentola che sfrigola di fritti
un masso nell’acqua
ed il rumore delle tue ciglia che ancora non conosco
o la tua bocca muta
ai miei passi che da te si allontanarono
quando fantasticando sul passo successivo
finii per perderlo del tutto
e per ricordare allora il rumore dei passi
non potei far altro che girarmi e ripeterli al contrario.